Nell’afosa luce estiva come nelle foschie invernali, il borgo di Grazie emana un fascino particolare. Un paesaggio struggente e umido ci ricorda cos’era la campagna. La Beata Vergine delle Grazie, prelevata da un’edicola in riva al Mincio e messa a protezione di un santuario, dispiega ancora il suo mantello sul piazzale della chiesa, dove artisti girovaghi, i “madonnari”, ne disegnano l’effigie sull’asfalto con gessetti colorati.
Uno dei luoghi in cui il sacro resiste è il santuario della Madonna delle Grazie nei pressi di Mantova. La facciata in gotico-lombardo, con il suo bel porticato, dà su una piazza dal fascino strano: in inverno, quando la nebbia sale dai prati, sembra di essere nel crocevia della desolazione; l’estate, invece, è bianca e afosa, umida e fantasmatica. Ma quando il tramonto arrossa il cielo, e i canneti e le acque splendono d’oro, il vago senso virgiliano di una campagna che genera la vita entra nelle ossa. Il borgo di Grazie appare allora come una piccola scacchiera di case all’intersezione di terra, acqua e cielo.
Non ci si aspetta che, superato il porticato, si apra un mondo dove il sacro impone alla storia una direzione soprannaturale, che sovrasta la natura lungo il filo dei giorni. Una storia muta, lontana, polverosa, che l’interno del santuario, spiazzante al primo sguardo, riporta alla vita. Fuori dalla chiesa, sul piazzale, una macchina parcheggia, un cellulare squilla, una ragazza inglese fotografa con l’Ipad: siamo nel XXI secolo. Dentro la chiesa, lo sguardo corre sulle impalcature in legno erette lungo la navata a cercare personaggi che non sono più, e che il tempo ha bloccato nelle vesti della loro epoca: ex voto a grandezza naturale che indossano gorgiere di pizzo, scialli con frange, cuffie civettuole, gonne dipinte a mano, cappelli di paglia, se sono donne; e armature, alabarde, lance, spadoni, se sono uomini.
Gli svantaggiati del reale sono gli avvantaggiati del sogno: chi è scampato alla forca o all’annegamento ha lasciato qui il suo simulacro, come ringraziamento perenne a Santa Maria delle Grazie. Ha guadagnato qualche anno in più di una vita già di per sé dura nella terra maccheronica del Merlin Cocai. Una galleria di miracoli che, percorrendo l’impalcata, dà la percezione di un altro mondo, dove le polverose dediche alle singole scene rimandano alla potenza della fede.
Le statue ex-voto sembrano protendersi verso lo spettatore dalle nicchie in cui sono collocate. Le sculture fanno da quinta a un teatro dei miracoli cinquecentesco e barocco. L’impalcato ligneo a doppia loggia è stato costruito nel 1517 da frate Francesco da Acquanegra per mettere ordine ai molti doni votivi accumulati negli anni: grucce e schioppi dei miracolati, figure in legno, stoffa e cartapesta di pellegrini illustri, di devoti imploranti una grazia o di scampati da pericoli mortali, ex voto anatomici in cera: mani, occhi, seni, bubboni pestiferi, dei quali i fedeli chiedevano la guarigione. Ci sono le nobildonne, ma anche una figura femminile con cappello di paglia, chiamata, per l’aspetto dimesso, “la miseria delle Grazie”; ci sono il cardinale, soldati in abiti cinquecenteschi, il salvato dall’affogamento, il salvato dall’impiccagione, il boia; e ghirlande, bizzarrie barocche, la cera usata come decorazione spagnolesca. I frati rimpiazzavano le povere rivestiture di stoffa che andavano in pezzi: uno di loro, Serafino da Legnago, è raffigurato nella nona statua a destra dall’ingresso della navata. Su ottanta nicchie, solo 53 contengono ancora la loro scultura. Il tutto fa pensare a una Wunderkammer, uno di quei musei eclettici del Cinque e Seicento, dove gli oggetti erano contenuti in armadi e scansie o appesi alle pareti e al soffitto, come il coccodrillo trovato nel Mincio e impagliato: dall’inizio del Quattrocento, se ne sta appeso in chiesa, simbolo del demonio che fugge davanti alla Madonna. Nell’altare maggiore del 1646, è inserita sopra il tabernacolo l’icona miracolosa della Madonna delle Grazie adorata dai pescatori, una tavola su pioppo di anonimo quattrocentesco che mescola tratti popolari con echi bizantini. Nella sacrestia sono conservate numerose tavolette votive dipinte tra il Seicento e l’Ottocento.
Il nucleo storico di Grazie è rappresentato dal santuario, iniziato nel 1399 e consacrato nel 1406, e dagli edifici posti sul perimetro della piazza antistante. La parte più antica è quella delle abitazioni a schiera in via Madonna della Neve, nelle quali si riconosce ancora la cellula originaria che diede luogo nel tempo alle varie tipologie edilizie: case di pescatori e case sorte dalla chiusura dei portici che contornavano la piazza. Quelle sul lato destro della stessa, ospitavano botteghe e ricoveri per i pellegrini.
Il santuario, in posizione rialzata sui canneti del Mincio, ha la facciata rivolta verso il borgo, mentre il fiume gli scorre alle spalle. Voluto da Francesco Gonzaga come ex voto per la fine della peste, nel passato si raggiungeva più spesso in barca che per terraferma. I pellegrini che sbucavano dai canneti all’alba o vi arrivavano nelle notti di luna piena, si riempivano gli occhi con le sue linee tondeggianti. Il viaggio al santuario rappresentava il tempo dell’attesa: la sosta al suo interno era il tempo sacro; il congedo era il tempo della speranza. Lasciamo il soldato spagnolo con l’elmo e il vestito a fiorami del Cinquecento; salutiamo il pellegrino vestito alla turca e il guerriero ricciuto ferito alla gola; diciamo addio alla Miseria dle Grasie, la contadina dal cappello di paglia che filava la lana e tagliava le canne palustri. Le pene e le disgrazie del vivere restano lì dentro. Alle spalle del santuario, scendendo dalla collinetta su cui sorge, si spalanca l’Amazzonia padana. Si entra nel mito: tra i canneti, in un’indolente giornata d’estate, potremmo vedere il dio Pan che spia le ninfe del fiume. Siamo nel regno dell’acqua, della palude: “là dove il Mincio si disperde in giri lenti e contorti / orlando le rive di canne flessuose”, scriveva Virgilio nel libro III delle Georgiche.
Questa vasta zona umida, estesa per oltre 1450 ettari, arriva fino alle porte di Mantova ed è la Riserva Naturale Valli del Mincio, una delle zone umide interne più vaste d’Italia. All’altezza dell’abitato di Grazie il Mincio, che da Peschiera scorre verso il Po con andamento nord-sud, fa una brusca virata ad angolo retto in direzione ovest-est. Il suo corso rallenta fino a impaludarsi, a causa dei lavori di sistemazione idraulica del Pitentino nel 1190. Nel fitto intreccio dei canali aperti nei secoli dagli uomini per accedere alle zone di pesca e di caccia, o per coltivare le carici e le canne di palude, si svela un ambiente quasi esotico. Tra i cespugli di salice cinereo nidifica l’airone rosso, nel folto del canneto si aggira il falco di palude. Dalle canne e dai rami protesi sull’acqua si tuffa il martin pescatore per catturare i pesciolini. Scivoliamo in barca fra le anse di un fiume che sembra il Mekong dell’immaginario salgariano, soprattutto in estate quando si naviga lenti tra i fiori di loto. L’estate è un’esplosione di colori: sotto il pelo dell’acqua, là dove essa rallenta sino quasi a fermarsi, cresce una vegetazione sommersa; sulla superficie si adagiano le foglie galleggianti della ninfea bianca amata da Mallarmé o della più comune ninfea gialla, il nenufaro che stregò Monet e D’Annunzio. “La ninfea – scrive Gaston Bachelard – è un istante del mondo … il sorprendente fiore di un’alba estiva”. E inoltre, la genziana di palude, il ranuncolo dei canneti, l’orchidea: tutto un mondo vegetale che vive in acque stagnanti e remote. Poi all’improvviso, in fondo alla palude, usciti dai meandri e dai canneti, ecco profilarsi il magnifico skyline di Mantova adagiata sul lago Superiore: le torri, le cupole, il castello, le Mille e una notte in terra padana.
Grazie è il regno dell’effimero: basta un acquazzone per cancellare le pitture dal sagrato della chiesa, come basta il passare del tempo per restituire al nulla la tela gessata o l’imbottitura di bambagia che rivestono le sculture ex voto. Sul sagrato ogni 15 agosto si svolge una sacra rappresentazione pittorica che richiama centinaia di turisti. Madonnari da ogni parte del mondo disegnano, nella notte che precede la festa della Madonna, immagini legate ai temi sacri della tradizione cristiana. I virtuosi del gessetto lasciano un segno del sacro nel luogo in cui ancora sopravvive.